Per una cooperazione nelle performing arts
Carlotta GarlandaSe proviamo a chiederci che “ora è oggi?” per le performing arts, è difficile non fare i conti con l’emergenza sanitaria che sta costringendo un intero paese a una lunga sosta forzata con la sospensione di tutte le attività e gravissime conseguenze per le vite di tutti i lavoratori.
Stiamo assistendo allo sgretolarsi piuttosto repentino di un sistema dello spettacolo dal vivo che già precedentemente presentava lacune enormi, dovute (non solo, s’intenda) alle ben note dinamiche di un finanziamento pubblico caratterizzato da ritardi, problemi di liquidità, criteri di valutazione non sempre calzanti, oltre a un mercato che non favoriva la circuitazione e la crescita, o per lo meno non le favoriva in maniera del tutto sostenibile. Per non parlare di molti operatori che non possono avvalersi del sostegno degli enti pubblici.
Se finora questo status quo in qualche modo ci ha permesso di “galleggiare” e in molti casi di conseguire una soglia di sopravvivenza, più che di vero e proprio benessere, è chiaro che adesso questo sistema così fragile rischia di crollare su stesso.
Se la persistente precarietà dei percorsi professionali è stata data quasi per scontata, sembra proprio questo il momento nel quale stanno emergendo richieste ad alta voce di nuove e più ampie forme di welfare a tutela sia dei lavoratori intermittenti dello spettacolo che dei lavoratori autonomi, che in molti casi non rientrano nelle tipologie individuate nel Dpcm “Cura Italia” (così come sembra che il Terzo Settore ad oggi non sia adeguatamente contemplato nelle manovre a sostegno dell’economia del paese).
Naturalmente il ragionamento è molto più complesso, perché le nostre vite di lavoratori dipendono fortemente da un mercato che ci ha abituato a degli standard che non reggono il confronto con alcuni dei più avanzati paesi europei, sia per quanto riguarda i temi della tutela che il reddito medio. Ma in qualche modo l’evidenza dell’assoluta fragilità del comparto sta innescando un processo di rivendicazione e – mi auguro – di coesione che certamente riuscirà a proporre nuove visioni e differenti strumenti, come già sta accadendo da parte di associazioni e coordinamenti di categoria, oltre che da Osservatori e studiosi. Parallelamente, a livello delle reti internazionali, quali per esempio IETM1 e On the Move2, si stanno portando avanti processi collettivi dove i temi della solidarietà e della sostenibilità vengono ribaditi con sempre maggiore determinazione.
Già da diversi anni, operatori e professionisti della cultura stanno analizzando e sperimentando nuove forme organizzative e nuovi modelli di governance, che possono essere un interessante stimolo per ripensare il posizionamento e funzionamento delle nostre organizzazioni. In linea con alcune di queste esperienze, insieme ai miei quattro soci Cristina Carlini, Cristina Cazzola, Giuliana Ciancio e Giulio Stumpo ho creato la srl impresa sociale Liv.in.g. – Live Internationalization Gateway, una società “bossless” che ha l’obiettivo di sostenere il settore culturale e delle performing arts in particolare nei processi di internazionalizzazione attraverso percorsi di crescita e formazione, favorendo il learning by doing, lavorando in modalità condivisa per l’individuazione di strategie efficaci per misurarsi con i mercati internazionali.
Nel nostro primo anno e mezzo di vita abbiamo lungamente riflettuto su modelli virtuosi per creare comunità da un lato e per stimolare una crescita continua delle imprese culturali. In qualche modo abbiamo continuato e continuiamo a spingere fortemente sul tema delle competenze di operatori e artisti (per i quali per esempio – riprendendo quanto sopra in merito al welfare – non sono previsti strumenti a sostegno dell’apprendimento continuo) e sul fare rete per innescare processi di scambio, conoscenza, ma anche per costruire nuove occasioni di lavoro e nuovi modelli di sostenibilità. Internazionalizzarsi – anche in un momento in cui la mobilità fisica è sospesa – significa cooperazione, sottolineando così una dinamica che non può essere mai unidirezionale quanto piuttosto bilaterale o ancor meglio multilaterale, o multifocale, perché il “focus” si moltiplica aprendo nuove prospettive e punti di vista.
Le premesse sulle quali abbiamo costruito questo progetto di impresa collaborativa – che dobbiamo, noi in primis, riadattare per riposizionarci in questo scenario inaspettato – restano quanto mai attuali e necessarie in uno momento in cui siamo tutti chiamati a disegnare nuovi sistemi di vita e di lavoro: solo innescando processi cooperativi a livello locale, nazionale, internazionale possiamo sperare di trovare risposte alla emergenza in corso e di poter rimetterci in moto con vitalità rinnovata.
Durante il nostro primo evento di networking “Life on Mars” che si è svolto a settembre 2019 a Milano abbiamo creato uno spazio di pensiero intorno al tema della resistenza culturale intesa come “una attitudine trasformativa volta a dare vita a organismi che ripensano la propria missione artistica, politica e sociale a favore di una società più inclusiva e che sperimentano modelli e pratiche collaborative e di sviluppo sostenibile”. Nonostante i timori di un futuro che per ora resta ancora ampiamente sfocato, voglio augurarmi che proprio intorno a questa definizione di resistenza possiamo invece porre le basi per nuove forme di solidarietà globale affinché (prendendo in prestito un titolo del quotidiano “Il Manifesto” di qualche giorno fa) non si torni più alla normalità di prima, perché era proprio quella normalità il problema.
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