Conversazione di
Valentina Valentini con
Don Cosimo Scordato
Il cammino che prende la strada della bellezza,della verità, della giustizia
Valentina Valentini: L’interrogazione di questo numero è : “Di cosa abbiamo/ho bisogno”. Dalla prospettiva cristiana, che cos’è necessario per dare senso all’esistenza individuale, quale responsabilità ha la singola persona verso se stesso e verso la collettività?
Don Cosimo Scordato: La risposta alla prima domanda prende avvio da ciò che viene chiamato nel gesto battesimale l’apotaxis e la suntexis . L’apotaxis è il prendere le distanze, il rifiuto di ciò che ci fa male, e la suntexis è l’adesione a ciò che promuove la bellezza della nostra vita. Addirittura, nell’antichità, nell’apotaxis venivano rivolte domande del tipo: «Rifiuti il male, rinunci a Satana?» E rivolti verso Occidente, il regno delle tenebre e del tramonto, si sputava dicendo: «rinuncio». Poi ci si volgeva verso Oriente, e con un gesto di adesione si diceva : «aderisco», come ad abbracciare la realtà della pienezza verso cui tendiamo. Voglio però aprire a una concezione un po’ più laica. Quando si parla di impedimenti che ci fanno avvertire un senso di prigionia, sia che ce li abbiamo dentro, sia che provengano da fuori a mortificare la nostra fantasia, la nostra creatività, il termine che usiamo è satàn, che è un termine ebraico che abbiamo tradotto con satana e personalizzato. In verità satàn significa impedimento. E quindi il percorso di vita cui siamo invitati è quello di rimuovere tutti gli impedimenti che imprigionano la nostra esistenza e che la compromettono nella sua realizzazione che sono di natura sia personale che collettiva: pensiamo alle speculazioni finanziarie, alle diseguaglianze sociali, al ritardo che viene imposto alle persone nel loro sviluppo, perché non hanno pari opportunità. Allora il termine satàn allude a tutto il processo di liberazione, che è permanente, che dura tutta la vita. Noi non finiamo mai di liberarci e di lasciarci liberare, sia all’interno sia all’esterno di noi. Questa liberazione è faticosa, perché bisogna rimuovere gli ostacoli, e gli ostacoli tante volte sono resistenti, sono di varia natura e incombenti su di noi. Ancora peggio quando sono stati introiettati e considerati come l’ineluttabilità della vita, come il fato degli antichi, qualcosa contro cui non possiamo intervenire. Non c’è fato per il cristiano, non c’è destino che non possa essere rimosso e superato. Tutti i processi di liberazione quindi possono essere assunti in questo cammino, che deve sgombrare la strada per renderla libera e per consentire a ogni persona di sperimentare la propria esistenza come esistenza libera da e libera per. In questa esperienza di liberazione, il termine su cui si gioca di nuovo il rischio di personalizzare è il diaballo, il diavolo. In realtà il diaballo è la rottura, la frattura che si può insinuare in noi stessi, nella molteplice frammentazione che avvertiamo dentro di noi, tra conscio e inconscio, tra io e super-io, tra noi che siamo protesi verso qualcosa che ci interessa e la resistenza che avvertiamo dentro noi stessi. E le fratture possono essere non soltanto a livello personale, ma anche in maniera molto ampia, tra i popoli. Tant’è vero che in alcune esperienze importanti, nei decenni precedenti, si è voluto lavorare per ricostituire una unità da parte di popolo, come in Sudafrica, per aprire lo spazio a una simbolicità, a un sumballein, a un mettere insieme, che è l’operazione esattamente inversa del diaballein. Dove il diaballein separa, crea fratture, rompe i rapporti e li fa diventare conflittuali e avversativi, il sumballein vuole unire le potenzialità presenti in tutti, per costituirli in qualcosa che può diventare elemento simbolico, produttivo di vitalità per tutti. Con questa dinamica di rimuovere gli ostacoli, di varia natura, fisica, psichica, finanziaria, economica, di tentare le strade del mettere insieme, in cui ognuno non perde la propria identità ma l’arricchisce, proiettandosi in comune con gli altri, la libertà da diventa libertà per costruire spazi sempre più ampi di incontro, di messa in comune delle proprie originalità, dei popoli, dei continenti, se vogliamo pensare in maniera geo-politicamente ampia. Credo che questo lavorio non possa finire mai perché continuamente dobbiamo rimuovere l’ostacolo e dobbiamo costruire opportunità di costruzioni in comune, di cui ognuno di noi è portatore sano, perché ognuno di noi ha qualcosa da offrire agli altri. Ecco, queste mi sembrano le dinamiche che vorrei rilanciare in maniera laica, nel senso più libero della parola, in modo da dare contenuti traducibili in azioni. Faccio un esempio. Che cosa impedisce nel mio quartiere, San Severo a Palermo, che possa avvenire qualcosa di bello, quali sono gli ostacoli che dobbiamo superare? Quante volte scopriamo che il modo migliore di superare gli ostacoli non è quello di lottare contro di essi, ma di offrire alternative. La vera lotta alla mafia dal nostro punto di vista, essere anti-mafioso, l’abbiamo inteso come un costruire modelli di aggregazione, di sviluppo, che siano partecipativi, creativi e diventino l’alternativa all’atto violento, aggressivo, di accaparramento, propri dell’agire mafioso. Lottare proponendo un’alternativa: non è facile. Chi lavora nell’ambito del sociale, della testimonianza religiosa, deve mostrare che la realtà può essere diversa. Liberarsi da, individualmente, e liberarsi per una costruzione sociale, collettiva. Ma in questo movimento c’è una conflittualità: quello che faccio per me non coincide con quello che potrei fare per gli altri. C’è un modo per superare questo conflitto?
V.V.: Nella prospettiva cristiana-cattolica come si risolve la frattura fra singolo e società, tra la felicità individuale e la felicità collettiva? Il singolo deve rinviare il bisogno di felicità alla vita ultraterrena, mentre sulla terra vive in una società che produce sofferenza a causa della diseguaglianza sociale/economica?
D.C.S.: L’atteggiamento è quello di prevenire e in ogni caso di superare i conflitti quando dovessero emergere, non solo in senso individuale. Si tratta di unire le forze, cosa che rende più facile il superamento di un ostacolo che ha delle proporzioni più ampie del livello individuale.
Ciò che rende più facile per tutti è abituarsi a sognare qualcosa. Come diceva Hélder Câmara, il sogno, se lo fa soltanto uno risulta un vagheggiamento, se siamo più di uno, comincia a diventare contagioso di potenzialità che prima non si erano messe in conto. Se lo facciamo tutti, se impariamo a sognare una realtà diversa, che ci può attrarre verso di sé e che diventa inevitabile, se intravediamo la possibilità, la bellezza, la fattibilità, se lo sogniamo tutti, allora il passaggio alla realtà diventa più facile. E che cos’è questo sogno in cui io mi esercito e in qualche modo aiuto anche gli altri a esercitarsi? La tentazione facile di uno che fa l’omelia della messa è quello di farla diventare una predica, cominciare a puntare il dito: avete sbagliato… Io (e questo l’ho imparato da decenni), non accuso nessuno. Il momento dell’omelia, della celebrazione è il momento prospettico, è il momento di in alto e in avanti, e richiede un continuo esercizio. Noi dobbiamo lavorare perché l’esistente, che a volte è anche duro, anche pesante, non ci condizioni nella possibilità di volare alto e di spiccare le ali, e dire: “guarda questa realtà la conosciamo, ci circonda, ma noi dobbiamo pensare un mondo nuovo”. Non in un aldilà, non parlo mai di aldilà. Cosa può essere la realtà se non riusciamo a sbloccare certi meccanismi infami, perversi e a dare spazio a dinamismi di creatività e di bellezza intorno a noi? Questo prospettare la diversità per me è il vero movimento di trascendimento nei confronti della durezza della vita, che tante volte ci fa sentire il suo peso, la sua resistenza. Se lottiamo l’uno contro l’altro, alla fine restiamo sullo stesso piano, ci neutralizziamo a vicenda. Invece di fronte a qualcosa che non ci convince inventiamo l’alterità, intesa come trascendimento dell’esistente e come possibilità nuova che dobbiamo liberare, per evitare di inciampare in quelle che sono le difficoltà della vita di ogni giorno. Quindi alimentare il sogno, per essere più reale di ciò che avviene realmente, per prospettare una realtà che sia ulteriore rispetto a quella che è sotto i nostri occhi. Il daimon di cui tu parlavi o l’angelo che dà il colpo d’ala, l’ho inteso anche come apertura a raccogliere tutto quello che può venire di buono, da chiunque lo porti, superando le differenze. Ben venga chi è più bravo ad aprire un orizzonte, a prospettare una cosa migliore, a innescare questo dinamismo del sempre più bello sempre più grande dell’esistente. Le mie amicizie sono laiche. Ho imparato da tutti, continuo a imparare da tutti, ed è una bella esperienza. Ciò che ci interessa non è salvaguardare l’esistente, ma andare oltre l’esistente. I termini “futuro” e “avvenire” non sono la stessa cosa; vanno coniugati. Futurum viene da fusis, nel senso che la natura ha i suoi processi di maturazione, ma l’avvenire viene da un dopo che non è solamente frutto di ciò che è sotto i miei occhi, può essere un qualcos’altro che non è frutto dell’esistente ma che provoca l’esistente ad andare oltre. Questa dinamica del futuro significa fare i conti con la realtà che si sviluppa, che è lenta nei suoi processi, perché sono processi che si vanno maturando. Ma c’è anche un avvenire – che noi liturgicamente chiamiamo avvento – che non è frutto del passato, è una liberazione che ci rende più leggeri per andare in alto e in avanti, secondo una concezione molto dinamica e molto tesa del processo evolutivo. Questo alto e avanti non deve mancare mai perché è il trascendimento della realtà. In questo senso a me piace rileggere questa espressione di Sant’ Anselmo: «Id quo maius cogitari nequit», ovvero: “Colui del quale non si può pensare più grandemente”, come dinamismo che mi obbliga a dire che ciò che esiste non è sufficiente. Anche le realizzazioni più belle non sono mai adeguate: ripartire sempre dal traguardo che si è raggiunto, perché ogni traguardo non è il traguardo, ma solo una transizione che aiuta a proiettarmi sempre più in alto e in avanti. Qualcosa di simile credo l’abbia scritto Massimo Cacciari nel suo libro L’angelo necessario (Adelphi, 1986), dove commenta Paul Klee. Lui parla di questa necessità dell’angelo. Di questo colpo d’ala che dobbiamo riuscire a dare alla realtà per non restare bloccati nel compiacimento dell’esistente. È bello ma devo pensare a un bello più bello, una cosa giusta più giusta, una cosa più vera, più autentica di ciò che possiamo riuscire a realizzare.
V.V. Essere cristiano è fare il bene ed evitare il male, rispettare dei riti determinati come partecipare ai sacramenti, accettare delle verità di fede depositate nelle Sacre Scritture, seguire una tradizione, quella della Chiesa Cattolica, accettare il suo progetto, far parte della sua comunità. Consapevole di semplificare una materia complessa, ti chiedo: in questo senso il cammino è prestabilito?
D.C.S.: Chiariamo il concetto di tradizione. La tradizione, come secondo me andrebbe intesa, non è la ripetizione della stessa cosa. Nel caso della tradizione Cristiana è l’insieme delle variazioni che si sono aggiunte secolo dopo secolo. Il modo di pensare dei padri della chiesa, che sono imbevuti di neoplatonismo, è diverso dal modo di pensare aristotelico di Tommaso d’Aquino che da quando cominciò a conoscere Aristotele si appassionò alla prospettiva aristotelica. Nacque così la schola, che è un fatto completamente nuovo. I monaci inizialmente si erano opposti alla scolastica, perché abituati a leggere il testo biblico, a commentarlo, tutt’al più a fare le cosiddette glosse. Invece la schola lavora per costruire un sistema, all’organizzazione della conoscenza, che ha un suo sviluppo, una sua continua ricerca. Pensa a una cattedrale medievale, dove tutti gli elementi naturali servono per costruire una realtà che somigli alla Chiesa, che esprima il suo slancio verso l’immensità, le guglie, le altezze. E la scienza serve a una conoscenza ulteriore, serve alla teologia, la teologia serve alla filosofia, la filosofia alla teologia, ecc. ecc., anche se tutto questo purtroppo si organizza in maniera gerarchica. Ma aldilà di questo aspetto, quando noi parliamo di tradizione, cosa intendiamo? Intendiamo Agostino? La scolastica? La riforma? Il concilio di Trento? Il post Trento? Tutto quello che è avvenuto in questi secoli ci pone davanti a delle continue diversità. Faccio un esempio molto spicciolo: nel Credo che noi recitiamo la domenica si introduce un termine che proviene dal Concilio di Nicea: Omohousios: il Figlio è della stessa sostanza del Padre. Questo termine non è preso dalla Scrittura, eppure è il modo migliore per interpretare la Scrittura. Si ricorre a un termine nuovo per dirci, alla maniera greca, come loro potevano fare, l’uguaglianza tra il padre e il figlio: della stessa sostanza del padre. La Bibbia non usa questo linguaggio, e intanto viene introdotto, e diviene professione di fede. La cosiddetta tradizione non ripete mai niente, è la crescita continua di modi di pensare, di agire, di intendere la fedeltà a Gesù Cristo in maniera diversa.
V.V. Parlando di tradizioni mi riferivo anche ai rituali, alle cerimonie che scandiscono la vita di un credente e offrono una cornice di ricorrenze all’esistenza quotidiana. Chi è credente, in questo senso, trova già un’indicazione di percorso da compiere che lo fa partecipe di una comunità. Inoltre, secondo la fede cattolica la figura dell’angelo custode ci guida nelle situazioni difficili e ci protegge nelle situazioni pericolose.
D.C.S.: La nostra linea non è tracciata, noi conviviamo continuamente con la quaestio e non finiamo mai di rispondere, per farne un’altra. Le summae teologiche sono centinaia di domande che rinviano a quella successiva. L’esistenza del credente non è organizzata. Certo, verrebbe facile dire: “ho le mie garanzie per il presente, per il passato, per il futuro, posso stare tranquillo”. Ma non ci sono garanzie di questo genere. La fede è dare lo spazio a che la novità di Dio possa diventare la sorpresa permanente che tiene desta la nostra attenzione e la nostra tensione verso la pienezza, che non è mai raggiungibile ma verso la quale tutti siamo protesi.
Le cerimonie fanno parte di una continuità identificativa della vita di un cristiano condivise fra cattolici, protestanti, ortodossi. Per esempio tutti celebriamo il battesimo, abbiamo tutti qualcosa in comune, però il modo di intendere tutto questo deve essere continuamente ripensato, perché la contemporaneità ci pone domande nuove. E allora perché con il Concilio Vaticano II è stata rinnovata profondamente, la liturgia? Noi eravamo abituati al latino e poi si è celebrato in italiano, e sono stati introdotti nuovi riti delle celebrazioni. Contemporaneamente ci si è accorti che il soggetto celebrante non era più il popolo cristiano, ma era il prete che celebrava per conto suo, col suo latino, volgendo le spalle ai convenuti. Il prete diventava una sineddoche, la parte per il tutto: il popolo dov’era? Alle sue spalle, recitava il rosario, faceva le sue pratiche. Noi siamo testimoni di un cambiamento epocale della liturgia: ci si è accorti che il passato aveva espropriato il popolo cristiano della sua soggettività, sia per un fatto linguistico, il latino, sia per un fatto celebrativo, le spalle rivolte, il prete che diventa l’unico celebrante. Per cui qualche volta leggevi nei foglietti della messa: “Entra il celebrante e ci si alza in piedi”. Ma perché, chi è il celebrante? Non è tutta la comunità cristiana? Addirittura si usavano verbi come: “ho assistito alla messa”, come se fosse uno spettacolo… Ci siamo trascinati per secoli tutta una serie di incongruenze fino a quando non ci siamo accorti che questa tradizione andava rivista radicalmente.
E che ne è dell’assenteismo dalle nostre celebrazioni? Che cosa è successo? Non siamo stati più capaci di attrarre con la nostra celebrazione che è apparsa sempre più una cosa estranea alla vita, perché non mostra i segni della convivialità, della partecipazione e della condivisione di beni. Allora il problema nostro è quello di ripensare ancora una volta il senso della celebrazione per riagganciarlo alla vita e agganciarci alla sensibilità dei nostri giovani, per capire in che modo comunicare loro tutto questo. Loro vogliono celebrare e celebrano più di noi, il venerdì notte, il sabato notte, domenica, le veglie notturne. Allora far capire che la convivialità che noi celebriamo è un gesto di reciproca auto-donazione: “questo è il mio corpo dato per te, questa è la mia vita che io do a te”. Questo scambio di doni, se riusciamo a ripensarlo e a renderlo comunicabile, allora possiamo riagganciare la nostra celebrazione alla vita e farla rivivere come autodonazione reciproca. Le parole culminanti della messa quali sono? “Questo è il mio corpo dato per te”. Queste frasi le abbiamo ritualizzate, facendole diventare qualcos’altro rispetto a quello che erano nell’esistenza di Gesù, che ha guarito, ha dato a tutti speranza, ha dato un senso di vita vera. Noi abbiamo rinchiuso tutto questo in un linguaggio, in un contesto, che non è non più osmotico con l’esistenza quotidiana. Per cui, stranamente, quando parlo di eucarestia non mi viene da pensare al banchetto e quando sono a tavola non mi viene da pensare all’eucarestia. Quando per Gesù Cristo è il banchetto dell’eucarestia, ci tengo a sottolinearlo, perché il banchetto è al culmine della moltiplicazione e della divisione dei pani. Perché Gesù ha moltiplicato i pani, li ha fatti dividere per farli bastare per tutti. Perché se non dividiamo il pane e il vino non bastano per tutti. Il vero attentato all’eucarestia di cui ci parla la Lettera ai Corinzi è che alcuni mangiano e altri restano ai margini. “Come mai fate questo? – chiede Paolo – non ha senso, prima mangiate e poi celebrate insieme la gioia del convito, cioè della vita condivisa”.
Cosa aspettiamo a tirar fuori il potenziale scatenante che ha l’eucaristia? Abbiamo troppo ritualizzato la celebrazione, l’abbiamo rinchiusa entro confini e l’abbiamo estraniata alla vita, e così abbiamo impoverito la vita e abbiamo impoverito anche la cena del Signore. C’è un rischio di una fuga verso l’astrazione della celebrazione rituale e verso l’alienazione da parte dei ragazzi, che stanno inseguendo il gesto conviviale ma stanno rischiando di non essere presenti gli uni agli altri. Mentre la presenza reale tra le persone è al centro della celebrazione. Comunicazione è comunione di vita.
V.V. Irradiare luce, dare forma, potrebbero essere delle categorie non solo inscritte nell’ordine delle estetiche, ma anche dell’etica?
D.C. S. Quando tornerai a Palermo e tornerai a vedere il duomo di Monreale, ti accompagnerò e ti farò vedere un intreccio costruttivo che è edificante per la vita, del modo di immaginare. Sai dov’era prima il fonte battesimale? Esattamente entrando in chiesa, guardando il Pantocràtore all’angolo destro, dove c’è la balaustra, sotto i mosaici della creazione, al piano superiore, mentre al piano inferiore c’è Noè che sta costruendo l’arca. Sotto c’era il fonte battesimale, che poi è stato tolto, è stato smembrato, purtroppo, è stato messo altrove, perché non avevano capito che c’era un sintagma visivo che partiva dal primo giorno della creazione: “sia la luce”. Sai come viene rappresentata la luce? Sono tutti gli angeli, che sono proprio folgoranti, e poi c’è un intrecciarsi di moduli mosaici con quattro colori che rappresentano i quattro elementi cosmici, acqua, aria, terra, fuoco che hanno quattro colori diversi e si impastano1. E sotto ancora, al livello della navata, c’era il fonte battesimale, che i padri greci hanno sempre chiamato il luogo dell’illuminazione, il battesimo come luce, fotismòs, illuminazione. L’inizio della creazione – che è un impasto di luce negli impasti cosmici -, l’arca di Noè che vuole difendere dal diluvio e l’attualizzazione di tutto questo, nel fotismòs dell’illuminazione battesimale.
Cosa significa questa illuminazione? Significa che l’uomo, sullo sfondo d’oro, che è la chiamata alla divinizzazione, deve somigliare a Dio: “A immagine e somiglianza di Dio”, passando attraverso Gesù Cristo, che è il miglior interprete di questa immagine e somiglianza. E quindi è un dinamismo di bellezza, che viene celebrato nel fotismòs. C’è una frase molto bella: “Guardando le vostre opere buone e belle glorificate il padre vostro che è nei cieli”. Quali sono queste opere buone e belle? Intanto sono i mosaici stessi, altrimenti perché tutto questo spreco di bellezza. Perché la bellezza è uno spreco, rivendica per sé uno statuto di grazia. La grazia non è un dovere, è un gratis, è un di più, è un oltre, che deve dare splendore. E quindi la concezione dell’uomo che è realizzato, che è un’opera d’arte nelle mani di Dio. E Dio nella creazione entra in scena tenendo in mano un progetto, ha il suo piano, ha dei fogli piegati nelle mani, a Monreale, e l’uomo nella creazione è l’opera più alta che possa fare. Talmente, che Dio ha il piacere di riflettersi in lui, nell’uomo creato a immagine e somiglianza. E l’uomo è chiamato a tradurre la propria realizzazione in gesti di bellezza, gesti, atti, movimenti, cose da realizzare. E la cosa bella, in un particolare del Duomo, è che Dio, quando crea l’uomo, si siede di fronte a lui, un poco più in alto. Ma è senza calzari, ha tolto i sandali, come a dire: “sto facendo un’opera importante”.
E questo essere ad immagine, non è un’opera già compiuta, l’uomo è per natura sua incompiuto. Tutte le opere incompiute dei grandi artisti sono la manifestazione di ciò che l’uomo è per statuto. Noi siamo ad immagine. Il che significa che siamo sempre in cammino verso la realizzazione, una realizzazione che non ci compete portare a compimento, ma verso il compimento dobbiamo tendere. E quindi tutto questo tracciato tra ciò che siamo e ciò che potremmo diventare è il cammino che prende la strada della bellezza, della verità, della giustizia. E questi sono nomi di Dio. Dio è sommamente giusto, sommamente vero, sommamente bello. Le cose che facciamo nella vita debbono essere vere, autentiche, giuste, proporzionate a tutti, al bene di tutti, sommamente belle, capaci di attrarre, perché nella bellezza si vive l’attrazione. Noi siamo attratti dalla bellezza. Mentre la cosa giusta la possiamo imitare, la cosa vera la possiamo contemplare, la cosa bella ci attrae. Questo dinamismo – in quel caso i mosaici, ma lo possiamo dire di ogni opera d’arte – è ciò che l’uomo è chiamato a essere: l’opera d’arte di Dio, a lasciarsi plasmare dalla vita e darsi la forma, la meno inadeguata possibile, per somigliare a Dio, sapendo che lui non è Dio.
Palermo – Roma, 20 novembre 2020
Don Cosimo Scordato, docente presso la Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo) è tra i fondatori del Centro sociale autogestito “S. Francesco Saverio” dell’Albergheria (quartiere di Palermo). Autore di diversi libri tra cui, recentemente, quattro volumi di teologia dei sacramenti: Il settenario sacramentale, Il pozzo di Giacobbe, un volume di omelie: Libertà di parola, un volume di pastorale: Dalla mafia liberaci o Signore, Monreale. Architettura di luce e icona, Palermo, Abadir 2009.
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