La sedia vascello nel mare agitato dei mobili di casa
Franco LorenzoniBambine e bambini hanno molto da insegnarci in questo periodo di forzata reclusione nelle nostre case perché, assai più di noi adulti, sanno “delirare” sugli spazi e sugli oggetti.
Il teatro – forse il gioco più antico – dicono sia figlio di riti ancestrali. Più vicino a noi, credo rinasca a ogni generazione per il semplice fatto che bambine e bambini non sono mai adatti a vivere dove sono capitati, dove sono caduti, precipitati. I piccoli si devono sempre adattare. Nessuna bambina o bambino ha scelto i suoi genitori, la casa, la città e sospetto neppure il pianeta dove la loro vita ha attecchito.
Ho la sensazione che è da questo lungo e difficile processo di adattamento che sia nato il teatro: dal nostro non essere mai completamente adatti ai luoghi in cui ci troviamo e, dunque, dalla necessità fisica di fantasticare altri spazi.
In questo fantasticare, fatto col corpo tutto intero compresa lingua, dita, fegato e pupille, sta la radice più antica del nostro creare mondi, sorgente creativa primaria potenzialmente illimitata, che nasce quando siamo molto piccoli e poi cerchiamo tutta la vita di ritrovare, perché è sorgente essenziale e profonda. Una sorgente spesso legata a piccole o grandi sofferenze, perché non essere adatti a un luogo o a relazioni genera dolore, disagio e naturalmente anche gioia e appagamento, quando ci si ritrova, si riconosce e si è riconosciuti.
C’è un altro aspetto più intimo, spesso segreto, a cui vale la pena prestare particolare attenzione in questo tempo di reclusione domestica: i bambini delirano con gli oggetti scovando ciò che gli altri non vedono, come nella migliore tradizione surrealista.
Sostiamo un po’ intorno alla parola delirare, senza farci spaventare.
La lira è l’aratro e delirare è uscire dal solco tracciato, allontanarsi dalla giusta via, deviare, esaltarsi, provare e manifestare frenetico entusiasmo. Fin qui il vocabolario, che non omette anche gravi sofferenze della psiche.
Ma nel gioco infantile ciò che osserviamo, come dicevamo, è la capacità di delirare con spazi e oggetti, assegnando loro significati e valenze apparentemente impropri.
Per fare spazio a questi oggetti che ritrovano la loro anima perché amati, un piccolo gesto concreto che possiamo fare sta nel vietarci un divieto e violare un tabù ordinatore, assecondando il bisogno dei bambini di spostare sempre ogni cosa accettando l’evidenza che i mobili si chiamano mobili perché sono mobili. Accettando dunque che le lenzuola si possono sfilare dai letti e tavoli e sedie si possono rovesciare.
Qui si aprono almeno tre strade.
Ci può essere un teatro solitario in cui il lenzuolo steso tra uno sgabello e il divano si fa tenda, vela o vessillo e comincia un’avventura che riguarda solo chi la compie.
Può prendere vita un teatro con pubblico in cui l’attrice o attore chiede attenzione ed è proprio quell’attenzione che rende vera la finzione. Potremmo chiamare questo teatro del pericolo e persino della crudeltà, perché in questo caso i bambini sfidano la distrazione adulta.
C’è infine un teatro di partecipazione che, seguendo una gloriosa tradizione del secolo scorso, pretende di coinvolgere nel gioco sorelle, fratelli, genitori o altri animali di passaggio e chi non ci casca è perduto. Più difficile forse, questo, ma non meno interessante.
Il punto, tuttavia, che riguarda tutte le tre le forme del teatro casalingo, sta nel minimo di fiducia che il giovanissimo performer deve possedere per credere all’incredibile o, meglio, per far si che quell’incredibile che lei o lui ha intravisto possa prender corpo ed essere preso sul serio, prima di tutto da chi lo sta creando.
Yoshi Oida, straordinario attore giapponese che lavorò per decenni con Peter Brook, sosteneva che si può insegnare sguardo, espressione e postura del corpo a un attore che voglia indicare e mostrare la luna nel buio di uno spazio chiuso, ma solo fino alla punta del dito. Dalla punta del dito alla luna, sosteneva, è responsabilità dell’attore ed è cosa che non si può insegnare.
Che succede con i bambini? Cosa si può o non si può insegnare? Cosa si può o non si può imparare da loro?
La questione è delicatissima e mi vado sempre più convincendo che il gioco teatrale, qualora si svolga in famiglia o tra amici, per prendere vita deve accogliere la sospensione, attraversare l’incertezza e, come quando noi adulti diveniamo lettori o narratori di fiabe, va sottoscritto un patto implicito, che sta nell’osare credere fino in fondo a ciò che accade. La bambina o bambino che giocano non hanno bisogno di stipulare quel patto perché, quando danno vita a un oggetto o a un personaggio, non conoscono il nostro superficiale arbitrio che separa il vivo dal non vivo, il vero dal non vero, in quanto sono naturalmente maestri nella sospensione dell’incredulità, che è qualità necessaria ad ogni arte.
Qui viene a galla l’esigenza più sottile e delicata della postura che il teatro infantile chiede a noi adulti: dare tutta la fiducia necessaria a rinforzare un’immaginazione capace di creare immaginari viventi in movimento senza sostituirsi, invadere il campo, pretendere di dettare regole o voler indicare la rotta. Non c’è buca del suggeritore nel teatro infantile, né fari da accendere. Solo attenzione al legno delle tavolacce perché ci si possa cadere in santa pace.
Eduardo De Filippo, nelle sue magistrali lezioni di drammaturgia all’Università di Roma, un giorno affermò che gli attori non sanno più entrare in scena. O entrano e nessuno se ne accorge, o si mostrano con prosopopea come a dire “eccomi qui” e… chi se ne importa. E invece, quando entra in scena un buon attore, tutti si devono accorgere e sentire che arriva da molto lontano.
I bambini, più sono piccoli e più arrivano da lontano, molto lontano. Ma per incrociare quel loro lungo viaggio dobbiamo anche noi accettare di partire, anche se piove.
James Cook navigò per migliaia di miglia in aree del globo al suo tempo in gran parte inesplorate. La sua particolarità fu di intrecciare l’arte marinaresca e il suo intrepido coraggio con uno straordinario talento cartografico, che gli permise di trovare, ritrovare ed esplorare terre sconosciute e pericolose, di cui seppe descrivere le caratteristiche con una qualità di particolari e dettagli che lo resero celebre.
La nitidezza cristallina delle sue carte nautiche sembra stesse nell’azzardo del riuscire a disegnare in una scala di rappresentazione mai raggiunta prima. Questo dettaglio non è indifferente perché una delle fonti dell’immaginario infantile sta nel gioco di mescolare ad arte telescopi e microscopi, mappe e territori, da buoni allievi di Alice e Gulliver.
Nella casa che conserva i cimeli dei suoi viaggi, del suo ultimo vascello non resta che una sedia costruita con il legno di quell’imbarcazione.
Ogni oggetto ha una storia, una memoria e i bambini sanno che ogni sedia nasconde il vascello del capitano Cook. Per questo vale la pena fare ogni sforzo e armarci di silenzio e cura ed attenzione per lasciarli salpare in pace e scegliere la forma di teatro che più li aggrada, evitando ogni ripresa video perché quel teatro, come la danza e ogni vero teatro, vive solo nel presente.
Ho la sensazione che è da questo lungo e difficile processo di adattamento che sia nato il teatro: dal nostro non essere mai completamente adatti ai luoghi in cui ci troviamo e, dunque, dalla necessità fisica di fantasticare altri spazi.
In questo fantasticare, fatto col corpo tutto intero compresa lingua, dita, fegato e pupille, sta la radice più antica del nostro creare mondi, sorgente creativa primaria potenzialmente illimitata, che nasce quando siamo molto piccoli e poi cerchiamo tutta la vita di ritrovare, perché è sorgente essenziale e profonda. Una sorgente spesso legata a piccole o grandi sofferenze, perché non essere adatti a un luogo o a relazioni genera dolore, disagio e naturalmente anche gioia e appagamento, quando ci si ritrova, si riconosce e si è riconosciuti.
C’è un altro aspetto più intimo, spesso segreto, a cui vale la pena prestare particolare attenzione in questo tempo di reclusione domestica: i bambini delirano con gli oggetti scovando ciò che gli altri non vedono, come nella migliore tradizione surrealista.
Sostiamo un po’ intorno alla parola delirare, senza farci spaventare.
La lira è l’aratro e delirare è uscire dal solco tracciato, allontanarsi dalla giusta via, deviare, esaltarsi, provare e manifestare frenetico entusiasmo. Fin qui il vocabolario, che non omette anche gravi sofferenze della psiche.
Ma nel gioco infantile ciò che osserviamo, come dicevamo, è la capacità di delirare con spazi e oggetti, assegnando loro significati e valenze apparentemente impropri.
Per fare spazio a questi oggetti che ritrovano la loro anima perché amati, un piccolo gesto concreto che possiamo fare sta nel vietarci un divieto e violare un tabù ordinatore, assecondando il bisogno dei bambini di spostare sempre ogni cosa accettando l’evidenza che i mobili si chiamano mobili perché sono mobili. Accettando dunque che le lenzuola si possono sfilare dai letti e tavoli e sedie si possono rovesciare.
Qui si aprono almeno tre strade.
Ci può essere un teatro solitario in cui il lenzuolo steso tra uno sgabello e il divano si fa tenda, vela o vessillo e comincia un’avventura che riguarda solo chi la compie.
Può prendere vita un teatro con pubblico in cui l’attrice o attore chiede attenzione ed è proprio quell’attenzione che rende vera la finzione. Potremmo chiamare questo teatro del pericolo e persino della crudeltà, perché in questo caso i bambini sfidano la distrazione adulta.
C’è infine un teatro di partecipazione che, seguendo una gloriosa tradizione del secolo scorso, pretende di coinvolgere nel gioco sorelle, fratelli, genitori o altri animali di passaggio e chi non ci casca è perduto. Più difficile forse, questo, ma non meno interessante.
Il punto, tuttavia, che riguarda tutte le tre le forme del teatro casalingo, sta nel minimo di fiducia che il giovanissimo performer deve possedere per credere all’incredibile o, meglio, per far si che quell’incredibile che lei o lui ha intravisto possa prender corpo ed essere preso sul serio, prima di tutto da chi lo sta creando.
Yoshi Oida, straordinario attore giapponese che lavorò per decenni con Peter Brook, sosteneva che si può insegnare sguardo, espressione e postura del corpo a un attore che voglia indicare e mostrare la luna nel buio di uno spazio chiuso, ma solo fino alla punta del dito. Dalla punta del dito alla luna, sosteneva, è responsabilità dell’attore ed è cosa che non si può insegnare.
Che succede con i bambini? Cosa si può o non si può insegnare? Cosa si può o non si può imparare da loro?
La questione è delicatissima e mi vado sempre più convincendo che il gioco teatrale, qualora si svolga in famiglia o tra amici, per prendere vita deve accogliere la sospensione, attraversare l’incertezza e, come quando noi adulti diveniamo lettori o narratori di fiabe, va sottoscritto un patto implicito, che sta nell’osare credere fino in fondo a ciò che accade. La bambina o bambino che giocano non hanno bisogno di stipulare quel patto perché, quando danno vita a un oggetto o a un personaggio, non conoscono il nostro superficiale arbitrio che separa il vivo dal non vivo, il vero dal non vero, in quanto sono naturalmente maestri nella sospensione dell’incredulità, che è qualità necessaria ad ogni arte.
Qui viene a galla l’esigenza più sottile e delicata della postura che il teatro infantile chiede a noi adulti: dare tutta la fiducia necessaria a rinforzare un’immaginazione capace di creare immaginari viventi in movimento senza sostituirsi, invadere il campo, pretendere di dettare regole o voler indicare la rotta. Non c’è buca del suggeritore nel teatro infantile, né fari da accendere. Solo attenzione al legno delle tavolacce perché ci si possa cadere in santa pace.
Eduardo De Filippo, nelle sue magistrali lezioni di drammaturgia all’Università di Roma, un giorno affermò che gli attori non sanno più entrare in scena. O entrano e nessuno se ne accorge, o si mostrano con prosopopea come a dire “eccomi qui” e… chi se ne importa. E invece, quando entra in scena un buon attore, tutti si devono accorgere e sentire che arriva da molto lontano.
I bambini, più sono piccoli e più arrivano da lontano, molto lontano. Ma per incrociare quel loro lungo viaggio dobbiamo anche noi accettare di partire, anche se piove.
James Cook navigò per migliaia di miglia in aree del globo al suo tempo in gran parte inesplorate. La sua particolarità fu di intrecciare l’arte marinaresca e il suo intrepido coraggio con uno straordinario talento cartografico, che gli permise di trovare, ritrovare ed esplorare terre sconosciute e pericolose, di cui seppe descrivere le caratteristiche con una qualità di particolari e dettagli che lo resero celebre.
La nitidezza cristallina delle sue carte nautiche sembra stesse nell’azzardo del riuscire a disegnare in una scala di rappresentazione mai raggiunta prima. Questo dettaglio non è indifferente perché una delle fonti dell’immaginario infantile sta nel gioco di mescolare ad arte telescopi e microscopi, mappe e territori, da buoni allievi di Alice e Gulliver.
Nella casa che conserva i cimeli dei suoi viaggi, del suo ultimo vascello non resta che una sedia costruita con il legno di quell’imbarcazione.
Ogni oggetto ha una storia, una memoria e i bambini sanno che ogni sedia nasconde il vascello del capitano Cook. Per questo vale la pena fare ogni sforzo e armarci di silenzio e cura ed attenzione per lasciarli salpare in pace e scegliere la forma di teatro che più li aggrada, evitando ogni ripresa video perché quel teatro, come la danza e ogni vero teatro, vive solo nel presente.
https://www.youtube.com/watch?v=iMbH85ttMKg
grazie per l’attenzione e spero in un tuo commento
ti abbraccio
E.F.Brod
https://www.facebook.com/emilio.falco.Brod.5/videos/1373445369457113grazie per l’attenzione e spero in un tuo commento
ti abbraccio
https://www.facebook.com/emilio.falco.Brod.5/videos/2297639700371004
Carissimo, a proposito del ” giocare ai tempi della pandemia” qui a napoli mi sono costruito la NAVECASA..che te ne pare?
Buona giornata.
E.F.Brod