Notte
Ermanna MontanariIl dopo
Ci sarà un dopo? Prima era sempre così scontato che ci fosse, un dopo. O è il Dopo con la maiuscola ciò di cui dovrei scrivere? Quel Dopo che ci mette inevitabilmente in relazione col nostro destino, con la morte, con “la più vuota delle immagini”, come l’hanno definita alcuni filosofi, con quell’aldilà che è qui e ora? Provo a mandarvi una Miniatura campianese inedita: ne ho scritte altre, dopo quelle già pubblicate, e questa mi pare avere attinenza, perché forse stare sul bordo, tra l’azzurro e il nero, è già un’invocazione all’oscura divinità del futuro.
Una notte sognai che sarebbe morto uno dei gemellini amici di mio fratello. Impaurita e traumatizzata da quella visione di sangue la confidai alla mamma; lei mi sgridò, e mi disse di tenere per me queste cose, che non si dovevano rivelare a nessuno. Non mi spiegò il perché, era così e basta. Il giorno dopo si seppe della morte del gemellino. Mi sentii in colpa per non aver fatto nulla. Avrei potuto salvarlo, non sapevo come, ma se lo avessi confessato anche ad altri, pensai, forse non sarebbe successo. Guardai mia madre, al funerale, per avere conforto in quello schianto di dolore. Mia madre fece finta di non saperlo, non mi rivolse la parola, non mi chiese scusa, non tornò mai più sull’argomento. Qualche tempo dopo, quando sognai la morte di un’altra persona, provai a riparlarne con la mamma: “tu non stai bene”, mi disse, e: “discorso chiuso”. Soffrii molto per il disinteresse della mamma, pensai volesse allontanarmi perché mi credeva colpevole della morte di quelle persone. Non volevo più dormire. Non volevo che quei sogni mi visitassero, ero certa che i brutti accadimenti fossi io a provocarli. Lo credetti per molto tempo, poiché continuai a sognare morti, e a non dirlo con nessuno. Un giorno, esasperata, lo confidai alla mia maestra delle elementari. Mi portarono da un medico di Bologna. In quegli anni, andare a farsi visitare a Bologna, dalla campagna, significava che la questione era grave. Non so cosa disse lo specialista, non ricordo nemmeno la sua faccia, e nemmeno cosa curasse. I miei non ne parlarono mai con me e io li allontanai da ogni mia confidenza. Per alcuni mesi dovetti sopportare delle iniezioni dolorose prima di andare a dormire. Una volta sentii la mamma dire a mia sorella più piccola che bisognava avere pazienza con me, che ero una ragazzina nervosa, che lei era più fortunata perché era buona. Queste parole, rubate per caso prima di entrare in cucina, mi fecero capire una volta di più che le mie notti sarebbero state una faccenda solo mia, che ai miei sogni avrei dato un altro corpo per entrare, un altro nome. Ci volle del tempo per comprendere, e chissà se mai compresi, se ora comprendo, quelle epifanie che si sono evolute man mano diventando più adulta. La presenza delle schiere, il loro modo di manifestarsi, i simulacri con cui affioravano e ancora turbano il mio sonno, sono state una ferocia della realtà, un combattimento dello spirito, geroglifici della notte. Ancora quello schianto si perpetua, nonostante la lotta per confinarlo fuori dal centro, in fondo al pozzo.
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