S/KIN

Emanuele Braga

Ho sempre considerato la pelle come un organo, o forse il più importante organo. Sulla pelle atterra delicata la domanda più importante della filosofia. E cioè: dove finisco io?
Forse è per questo che a volte sulla pelle si accumulano così tante energie e tensioni e massaggiarla ci fa rilassare così tanto.
In inglese c’è questo gioco di parole tra Skin e Kin: skin significa pelle, kin significa lignaggio, famiglia, alleanze generative.
Questo articolo è dedicato ad un concetto nuovo che chiamerei S/Kin, e cioè il rumore bianco, la fibrillazione, la vibrazione che produce la sovrapposizione fra l’avere una pelle e l’essere parte del tutto che ci circonda, tra salvare la propria pelle ed essere, dopo tutto, nient’altro che il sogno di qualcun altro.
C’è stato un inizio forse a questa prigionia? Come mai siamo finiti in questo paradigma culturale in cui siamo individui asserragliati entro i confini della nostra pelle e cerchiamo di difenderci da questa cosa chiamata natura attraverso i potenti mezzi della scienza e delle tecnica?
Alla fine del modernismo, dove ora siamo, il capitalismo ha fatto dell’individualismo la sua bandiera, ha fatto del calcolo e della trasformazione dell’esistente in unità di calcolo la sua religione. E tutto ciò che accade sembra un continuo omogeneo di dati interconnessi che tecnicamente fanno funzionare ogni cosa e definiscono cosa è utile e ciò che non lo è.
Negli ultimi due secoli la scienza pare essersi trasformata nella nuova religione che definisce tutto ciò che funziona, creando quel discrimine pretestuoso e fittizio fra ciò che è utile e ciò che è sacrificabile. In realtà la scienza che comunemente studiamo è inevitabilmente intrisa di ideologia e fa passare come naturale ciò che pensa la cultura per lo più neoliberale, il neodarwinsimo competitivo, il patriarcato, il colonialismo e l’estrattivismo delle risorse.
Per uscire da questa empasse Bruno Latour propone di rispondere a Galileo, che la terra, “Eppur si Commuove!”.
Credo che la nostra scommessa culturale più urgente sia dare una funzione politica e senziente a ciò che chiamiamo natura e ciò che chiamiamo cose, compreso quelle più astratte come le macchine e i concetti. Questa è la manovra culturale che sento più necessaria e che dobbiamo approfondire: come dare occhi ad ogni cosa con cui entriamo in relazione?
Tutto sente. Tutto è interconnesso e quindi sente. Noi siamo un collettivo. Io non finisco esattamente nella mia pelle ma sono l’aria che mi avvolge, le onde che mi colpiscono la retina. Questo suono o questa luce produce il tuo viso e si incunea nella forma delle mie sinapsi ed entrando e ritornando modella il mio cervello. Come l’onda sulla spiaggia, va e viene e riconferma e leggermente sposta questo confine. Dove inizio io e finisci tu? Perché io ti sento e tu mi senti?
Tutte le cose e gli organismi hanno questa capacità senziente dal momento che sono dentro questo continuum. La conoscenza non è altro che questo saper fare o lasciarsi fare dall’essere in relazione.
Mi sono trovato un pò di anni fa a lavorare da artista insieme a Gilles Clement. Lui aveva inventato il concetto di “Terzo paesaggio” che ha rafforzato e reso possibile pensare quello che rilancio in questo scritto: il collettivo-piante è un soggetto politico che definisce il paesaggio con una capacità autopoietica e auto organizzativa al pari di quella del collettivo umano (se non più forte, duratura e presente in termini di rapporti di forza). Essere giardiniere e paesaggista significa essere un esperto osservatore di come il mondo vegetale si organizzi, entri in simbiosi e conflitto, e quale piccola porzione in questo disegno possa ragionevolmente ricavare l’uomo e le sue attività.
Gilles Clement scrisse anche un piccolo libro inaspettato e meraviglioso sulle nuvole. Catalogando le forme delle nuvole, il cielo sembra una scrittura in movimento che narra come l’aria stessa sia senziente e auto organizzata in relazione alla terra e tutto ciò che succede quaggiù. La meteorologia potrebbe essere considerata una sorta di struttura neuronale? Le strutture ricorsive delle correnti atmosferiche, i cicloni e gli anticicloni, non potrebbero essere simili alle sinapsi dei cervelli del mondo animale? Le conseguenze del climate change, questi due secoli di inquinamento basato su combustibili fossili, sfruttamento di lavoratori e genocidi che ha prodotto il capitolocene non potrebbe essere come un trauma, un ricordo indelebile per secoli a venire, materialmente rappresentato dalla forma in cui la meteorologia si organizza in questa epoca geologica? Se mettessimo dei colori ai vortici e riccioli che modellano le correnti del cielo non potremmo intravedere una sorta di mega struttura pensante in cui si struttura la memoria di ciò che accade?
Perché nel nostro linguaggio non ci chiediamo per quanto tempo il cielo ricorderà questa ferita, e come possiamo curare il trauma che abbiamo procurato alle nuvole?

Emanuele Braga è un artista, ricercatore e attivista, che opera sul rapporto tra arte, economia e nuove tecnologie. Negli ultimi anni ha co-fondato e sviluppato diversi progetti: la compagnia di danza Balletto Civile in cui ha operato come coreografo, performer e insegnante; Macao, nuovo centro per l’arte e la cultura a Milano; Landscape Choreography, progetto performativo e di ricerca, in cui ha operato come direttore, curatore e ricercatore; IRI, Institute of Radical Imagination, think tank artistico transnazionale con lo scopo di implementare forme di vita post-capitaliste; Ebony decolonize work, piattaforma di design per richiedenti asilo; KIN lab, uno spazio d’arte a Milano.

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